FAQ
L’accortezza di venire a vescica vuota, a distanza dall’ultimo pasto abbondante e da esercizio fisico intenso è necessaria per ridurre al minimo la variabilità dell’esame bioimpedenziometrico. Questo esame, indolore e innocuo, serve per avere una stima della composizione corporea, ma essendo suscettibile ad alcune variabili è utile cercare di ridurle al minimo per rendere l’esame più facile da interpretare e confrontare nel tempo.
Puoi consultare tutte le indicazioni per la prima visita nella sezione dietologia e nutrizione.
La bioimpedenziometria è una metodica usata in campo medico e sportivo per stimare la composizione corporea dell’individuo. Si basa sul concetto che tessuti diversi hanno diversa capacità conduttiva e offrono pertanto una resistenza diversa al passaggio di corrente. L’esame bioimpedenziometrico è quindi una misura rapida, indolore e innocua per stimare le caratteristiche interne del paziente come la massa grassa, la massa muscolare, l’acqua e la massa ossea.
Si, al momento attuale esistono 3 farmaci approvati in Italia per il trattamento dell’obesità e del sovrappeso associato a complicanze: liraglutide, orlistat e la combinazione di naltrexone e bupropione. Una terapia farmacologica contro l’obesità può essere prescritta (si ricorda che la prescrizione è un atto medico) solo in aggiunta alle modifiche dello stile di vita (piano alimentare corretto stilato da un professionista ed attività fisica) e solo in presenza delle giuste indicazioni.
Come riportato sul sito dell’EFSA (European Food Safety Authority): “Gli integratori alimentari sono fonti concentrate di nutrienti (cioè minerali e vitamine) o di altre sostanze con effetto nutrizionale o fisiologico […]. Negli integratori alimentari può essere contenuta un’ampia varietà di sostanze nutritive e di altri ingredienti, tra cui, ma non solo, vitamine, minerali, amminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre e varie piante ed estratti di erbe. Gli integratori alimentari hanno lo scopo di correggere le carenze nutrizionali, mantenere un adeguato apporto di alcuni nutrienti o coadiuvare specifiche funzioni fisiologiche. Non sono medicinali e, in quanto tali, non possono esercitare un’azione farmacologica, immunologica o metabolica. Pertanto il loro uso non ha lo scopo di trattare o prevenire malattie nell’uomo o di modificarne le funzioni fisiologiche”. Quindi non esistono integratori “per dimagrire” ma esistono sicuramente integratori che, nello specifico paziente, possono essere utili o necessari per un periodo di tempo variabile.
È posizione dell’American Dietetic Association (oggi Academy of Nutrition and Dietetics) che “le diete vegetariane correttamente pianificate, comprese le diete totalmente vegetariane o vegane, sono salutari, adeguate dal punto di vista nutrizionale, e possono conferire benefici in termini di prevenzione e trattamento di alcune patologie. Le diete vegetariane ben pianificate sono appropriate per individui in tutti gli stadi del ciclo vitale, ivi inclusi gravidanza, allattamento, prima e seconda infanzia e adolescenza, e per gli atleti.” È importante tuttavia porre l’attenzione sul concetto di “dieta correttamente pianificata”, ribadito più volte, per garantire tutti i fabbisogni specifici dell’individuo nella sua fase di vita e con il suo quadro clinico specifico.
La gravidanza è una fase fisiologica della vita della donna. Ogni donna è unica così come sarà unica ogni gravidanza: in base ai sintomi specifici eventualmente associati alla gravidanza (per esempio nausea o stipsi), alla categoria di peso iniziale e al decorso clinico della paziente (per esempio il riscontro di alterazioni glicemiche) lo schema nutrizionale sarà personalizzato di conseguenza ed evolverà in base all’evolversi della situazione specifica.
Ci sono però degli accorgimenti generali che valgono per tutte, per il rischio che alcune sostanze, tossiche per il feto, raggiungano importanti concentrazioni:
- non assumere alcolici
- assumi massimo 2 caffè nella giornata (200 mg al giorno di caffeina)
- per il rischio di accumulo di mercurio meglio ridurre l’assunzione di pesci grassi di grande taglia (come tonno fresco, salmone, pesce spada) e preferire il pesce azzurro di piccola taglia (sarde, aringhe, sgombri, suro)
Altre raccomandazioni sono invece importanti per ridurre il rischio di tossinfezioni alimentari (toxoplasmosi, salmonellosi, listeriosi):
- Evitare carne poco cotta, al sangue o cruda.
- evitare di assumere fegato o altre frattaglie.
- Evitare i paté (di ogni tipo)
- Non assumere carne conservata (prosciutto, bresaola, salumi ecc). L’unica eccezione è il prosciutto cotto privato del grasso.
- evitare uova poco cotte o non pastorizzate. Non assumere maionese fatta in casa.
- Evitare il pesce crudo o poco cotto, soprattutto i molluschi
- Assumere sempre e solo latte e formaggi derivati che siano pastorizzati o ottenuti da latte pastorizzato.
- Evitare formaggi soffici derivati da latte crudo e/o con muffe (brie, gorgonzola)
- Lavarsi accuratamente le mani prima di manipolare il cibo e dopo aver cucinato, prima di mangiare
- Lavare sempre frutta e verdura con bicarbonato o disinfettante per uso alimentare
- Utilizzare sempre i guanti per i lavori in giardino
- Evitare di pulire la lettiera del gatto
Fonte delle raccomandazioni: “Nutrizione in gravidanza e durante l’allattamento realizzato dalla Fondazione Confalonieri Ragonese su mandato SIGO, AOGOI, AGUI, 2018”
Le intolleranze alimentari fanno parte, insieme alle allergie alimentari, del gruppo delle reazioni avverse agli alimenti. Le reazioni avverse agli alimenti possono essere di tipo tossico, per esempio per presenza di sostanze tossiche, tossine, contaminazioni batteriche; oppure non tossiche. Le reazioni non tossiche comprendono le allergie, che hanno alla base un meccanismo di reazione immunomediato e le intolleranze, che invece non derivano da meccanismi immunomediati ma da meccanismi di altra natura, per esempio dalla carenza o assenza di enzimi atti a metabolizzare alcune sostanze (come avviene nell’intolleranza al lattosio) o per reazione cosiddetta farmacologica ad alcune sostanze (ad esempio intolleranza all’istamina o sensibilità alla caffeina). A differenza dei soggetti allergici, che devono spesso condurre una dieta di eliminazione dell’alimento verso il quale si sono sensibilizzati, i soggetti intolleranti posson assumere piccole quantità dell’alimento senza manifestare sintomi. Attualmente non solo molte intolleranze non sono ben definite e i meccanismi non sono del tutto noti, ma esistono pochissimi test in grado di evidenziarle, e accanto a questi pochi test stanno fiorendo numerose metodiche disponibili sul mercato prive di evidenze scientifiche di attendibilità e riproducibilità. Questi test, inattendibili e inappropriati, oltre ad essere costosi possono indurre il paziente a seguire diete estremamente restrittive rischiando di incorrere in vere e proprie carenze nutrizionali. Spesso i pazienti riferiscono di sentirsi meglio in un primo momento seguendo queste diete restrittive, per il semplice fatto di aver “alleggerito” una dieta probabilmente troppo abbondante in precedenza, e questo porta invece erroneamente a trovare conferma nelle diagnosi ottenute. Successivamente però, con il perpetuarsi di regimi inutilmente restrittivi verso intere categorie alimentari, possono emergere gli effetti di un’alimentazione squilibrata.
Il concetto di peso ideale non esiste all’interno del mio studio. Come ripeto sempre ai miei pazienti, non esiste un peso che vada bene per una categoria di soggetti che hanno delle variabili in comune (per es l’altezza e il sesso), non esiste un peso che va bene per due persone simili, ma nemmeno un peso per la stessa persona nelle diverse fasi della sua vita! Esistono senz’altro delle classi di peso (che si identificano con il BMI, Body max index) che aiutano a definire il paziente all’interno di una determinata categoria di peso (sottopeso, normopeso, sovrappeso e obesità di classe I, II e III) cui sono associati diversi gradi di rischio cardiovascolare, e questo è uno strumento utile e importante, ma che va comunque sempre interpretato (ad esempio un culturista potrebbe risultare nella categoria “obesità”). Per esempio, il peso delle persone che si mantengono in forma non è fisso, ma oscilla sempre, per mille variabili. Molti pazienti già alla prima visita mi chiedono il “peso obiettivo” e la risposta è che non è il peso ad essere il nostro obiettivo, il nostro obiettivo è quello di imparare a mangiare bene, nelle giuste quantità e qualità, a fare attività fisica con piacere e regolarità. Raggiunto questo obiettivo, il peso giusto verrà da sé.
Il termine nutrizionista sta a indicare un generico operatore nel campo della nutrizione, è un termine spesso abusato e autoconferito da figure di ogni tipo. Al contrario quando questo aggettivo si riferisce al biologo fa riferimento ad una figura professionale ben precisa. Per svolgere la professione di biologo nutrizionista è necessario laurearsi in Biologia (laurea triennale) ed iscriversi all’albo dei biologi (non è quindi necessaria alcuna specializzazione). Secondo il parere del consiglio superiore della sanità del 12 Aprile 2011 “il biologo può autonomamente elaborare profili nutrizionali al fine di proporre alla persona che ne fa richiesta un miglioramento del proprio benessere, quale orientamento nutrizionale, finalizzato al miglioramento dello stato di salute”. Mentre (come ribadito dalla sentenza n. 3527 del 18 febbraio 2011) “il biologo può solo suggerire o consigliare profili nutrizionali finalizzati al miglioramento dello stato di salute e mai, in nessun caso, può prescrivere una dieta come atto curativo, che rimane sempre un’attribuzione esclusiva del medico”.
Il Dietista è invece laureato in Dietistica, un corso di laurea triennale della facoltà di Medicina e Chirurgia, è un corso di laurea interamente dedicato alla nutrizione e prevede un tirocinio pratico generalmente in ambito ospedaliero. In pratica, il dietista è colui che organizza e coordina le attività specifiche relative all’alimentazione e alla dietetica; collabora con gli organi preposti alla tutela dell’aspetto igienico-sanitario del servizio di alimentazione; elabora, formula ed attua le diete prescritte dal medico e ne controlla l’accettabilità da parte del paziente; collabora con altre figure al trattamento multidisciplinare dei disturbi del comportamento alimentare. Come il biologo nutrizionista e come qualsiasi altra figura professionale non può prescrivere farmaci o fare diagnosi.
Il medico dietologo è un medico che dopo aver conseguito la laura magistrale in Medicina e Chirurgia (ciclo unico di 6 anni) ed essersi abilitato all’esercizio della professione, si specializza in Scienza dell’Alimentazione (4 anni). Il medico dietologo, in quanto medico appunto, ha la responsabilità clinica dei suoi pazienti ed è l’unica figura al quale compete la diagnosi di malattie, l’interpretazione di esami ematochimici e diagnostici, la prescrizione della dieta e di eventuali esami diagnostici e di farmaci.
Gli studi ci dicono che non è necessariamente vero, anche se è più probabile. In realtà questo risultato non è tanto dovuto alla dieta in sé: molte diete “rapide” sono del tutto prive di fondamento scientifico, ma ne esistono alcune affidabili ed efficaci se eseguite sotto controllo medico. Il problema sta piuttosto nel “dopo”: se dopo una dieta molto rigida e rapida, magari eseguita in autonomia, il paziente non acquisisce le nozioni per mantenere il peso raggiunto e alimentarsi correttamente, ma pensa invece di poter tornare alle abitudini precedenti, ovvio che i chili persi rapidamente si recuperano altrettanto rapidamente. Le diete rapide sono uno strumento utile, ma “non insegnano nulla”. Senza un cambiamento profondo e duraturo, i chili si riprenderanno. Se questo cambiamento avviene, anche una dieta “rapida” può far parte del percorso, in sicurezza e con la consapevolezza che è solo una piccola tappa di un percorso più lungo e strutturato.
La prima visita dietologica ha un costo di 100€, i controlli di 60€. È possibile pagare con il bancomat. Si ricorda a tal proposito che secondo la legge di bilancio n. 160 del 27/12/2019, a partire dal 1° gennaio 2020 sarà possibile detrarre il 19% delle spese mediche solo se il versamento viene effettuato con una modalità di pagamento tracciabile (bancomat, carta di credito, bonifico bancario).
La vitamina B12, detta anche cobalamina, è una vitamina idrosolubile (ovvero che si scioglie in acqua). All’interno del corpo umano svolge moltissime funzioni, in particolare è fondamentale per la sintesi del DNA, la funzionalità del sistema nervoso e per la produzione di globuli rossi. La sua carenza, infatti, determina una anemia definita perniciosa, mentre solo nei casi più gravi possono comparire alterazioni del sistema nervoso. Questa vitamina è pressoché assente nel regno vegetale e nei lieviti (o è presente in forma non assimilabile per l’uomo o simile per struttura ma inattiva), mentre è presente negli alimenti di origine animale e il fabbisogno giornaliero, essendo esiguo, viene ottimamente coperto da una dieta onnivora. Nelle diete a base vegetale è necessario, invece, integrare questa importante vitamina tramite integratori o tramite l’assunzione di alimenti fortificati. Altre cause di carenza sono le patologie/interventi chirurgici resettivi a livello gastrico e intestinale perché determinano una riduzione del suo assorbimento. Pertanto, in persone sane che seguono diete onnivore è difficile registrare una situazione di carenza, mentre è importante ricercarla in persone che soffrono di patologie gastro intestinali.
Recentemente si è diffuso un nuovo elettrodomestico in cucina: la friggitrice ad aria. La friggitrice ad aria usa aria caldissima, che viene spinta velocemente nella camera di cottura; a differenza della frittura tradizionale, il cibo non cuoce in olio bollente ma grazie alle temperature elevatissime dell’aria. Non utilizzando olio ma aria calda consente in realtà anche di essere utilizzata come un forno molto potente e rapido (e anche però più energivoro).
Come ogni cosa vanno valutati i pro e i contro. Sicuramente il termine friggitrice può trarre in inganno, i piatti saranno molto più simili ad arrostiti, e la “frittura in forno” non è certo una novità, molti alimenti panati vengono da anni proposti per essere cotti al forno ad alte temperature, per ricercare la croccantezza della frittura senza l’immersione in olio.
Sicuramente la friggitrice ad aria ha il merito, rispetto alla frittura vera e propria, di risparmiare moltissimi grassi nocivi. D’altra parte, la frittura tradizionale è una metodica di cottura non salutare e che dovrebbe in ogni caso essere usata con parsimonia, nelle occasioni, non certo nel quotidiano.
Tutte le cotture ad alte temperature, compresa quindi quella con la friggitrice ad aria, possono causare la produzione di sostanze tossiche come l’acrilammide. L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato l’acrilammide tra i “probabili cancerogeni per l’uomo”, mentre l’EFSA (l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare), pur dichiarando che il rischio è molto basso, invita a limitarne il consumo.
È importante quindi sottolineare che sebbene la friggitrice ad aria sia sicuramente più salutare della frittura tradizionale e può essere utile in questo caso per assumere meno grassi nocivi, nel quotidiano sarebbe opportuno preferire le cotture a vapore e a basse temperature, che sono sicuramente le più sane e consentono inoltre di preservare meglio i nutrienti.
Recentemente hanno preso spazio nel mercato alimentare alcune varietà di grani detti “antichi”, presentati come meno raffinati, più salubri e meno ricchi di glutine rispetto al grano “comune” utilizzato nella grande distribuzione. L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato su ISSalute, il sito dedicato alle fake news, un articolo che riporta alcuni aspetti di quello che sembra essere un fenomeno molto più legato al marketing dell’alimentazione salubre che ad effettivi benefici evidenziati dalla scienza. Sembra infatti che allo stato attuale “non ci siano prove scientifiche sufficienti per ritenere che le varietà di grano coltivate circa un secolo fa, recentemente reintrodotte in commercio, abbiano proprietà nutrizionali che le rendono preferibili ai grani moderni e che siano adatte ai soggetti celiaci.
Pur non essendo modificati geneticamente in laboratorio, anche i grani antichi, così come quelli moderni, sono stati spesso selezionati mediante incroci ed ibridazioni, spesso a partire da varietà presenti in altri paesi del mediterraneo. È il caso della varietà Jeanh Rhetifah di origine tunisina da cui ebbe origine la famosa varietà Senatore Cappelli, oppure degli incroci del grano “Rieti” con una specie olandese ed una giapponese, per ottenere il più resistente “Ardito”.
Per quanto riguarda la quantità di glutine, non è vero che i grani antichi ne contengano meno di quello moderno, e siano quindi più adatti ai soggetti celiaci. Diversi articoli scientifici hanno studiato la composizione ed il potenziale allergenico del glutine dei grani antichi rispetto a quelli più recenti, ma i risultati ottenuti sono stati contraddittori. Allo stesso modo, sebbene un limitato numero di ricerche condotte in modelli sperimentali o sull’uomo abbiano rivelato un potenziale effetto benefico dei grani antichi su alcuni parametri cardio-metabolici ed infiammatori (1), la letteratura non è ancora unanime nel riconoscere queste proprietà. […] Infine, viene spesso riportato che i grani antichi, rispetto alle varietà moderne, siano più salubri in quanto non necessitano di diserbanti e concimi oppure sono meno raffinati perché le loro farine vengono macinate a pietra. Le modalità di coltivazione e il tipo di macinazione poco hanno a che fare con le varietà di grano, ma dipendono da scelte aziendali dei produttori. […] Alla luce dei dati attualmente disponibili, non esiste la certezza che i grani antichi debbano essere preferiti a quelli moderni per tutelare la nostra salute. Essi sicuramente rappresentano una importante risorsa per conservare la biodiversità agroalimentare e recuperare le tradizioni culturali del nostro paese.”
Ciò non toglie che possono essere una scelta basata sulla semplice preferenza di alternare le fonti di grano nella propria alimentazione. Oltretutto l’offerta dei grani antichi viene spesso proposta da piccoli produttori che scelgono di puntare proprio sulle condizioni ottimali di coltivazione e manipolazione delle materie prime. Il loro consumo, quindi, non può essere incentivato su basi scientifiche che al momento sono carenti, ma non è assolutamente controindicato.
Il glutine è un complesso proteico che si trova nel frumento e in altri cereali (ad esempio farro, orzo, segale). Negli ultimi anni si sta diffondendo la paura per questo tipo di sostanza e quindi la sua esclusione dalla dieta. In realtà, come ormai molte compagnie di informazione stanno sottolineando, attualmente non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino l’effetto benefico di una dieta aglutinata per i soggetti non celiaci, allergici o ipersensibili al glutine.
La situazione è ovviamente diversa per i soggetti affetti da celiachia, i quali sviluppano una reazione infiammatoria all’ingestione di questa sostanza che va poi a determinare un danno alla mucosa intestinale. L’intestino infiammato e danneggiato non riesce ad assorbire tutti i nutrienti e questo può portare, se la malattia non è prontamente diagnosticata e gestita con una dieta aglutinata, a una condizione di malassorbimento ovvero di incapacità da parte della mucosa alterata di assorbire i nutrienti. Una situazione più sfumata e meno grave è quella della gluten sensitivity (sensibilità al glutine non celiaca) ovvero una condizione, diagnosticata empiricamente per esclusione, in cui ci sono dei sintomi associati all’assunzione di glutine ma non si evidenziano i danni alla mucosa intestinale.
Per i soggetti affetti da malattia celiaca la dieta priva di glutine è fondamentale per evitare di sviluppare gravi carenze nutrizionali, eliminare gli eventuali sintomi e prevenire le complicanze più gravi, che sono fortunatamente rare.
Al contrario, in assenza di una diagnosi di celiachia, non è consigliabile eliminare dalla dieta i cibi contenuti glutine. Infatti rimuovere i cereali contenenti glutine, come frumento, orzo e farro dalla propria dieta significa privarsi delle principali fonti di carboidrati complessi. I cereali, soprattutto se integrali, sono anche un’importante fonte di minerali, vitamine e fibre.
L’eliminazione dei cereali contenenti glutine e l’utilizzo dei prodotti gluten-free (che sono per forza di cose spesso molto raffinati) quindi, dovrebbero essere rigorosamente ristretti a tutte le persone con diagnosi di celiachia accertata; in questo caso la dieta diventa una vera e propria cura.
In assenza di patologie che giustifichino l’eliminazione dalla dieta di cibi contenenti glutine, la privazione di alimenti contenenti glutine è una scelta immotivata e che espone al contrario al rischio di privarsi dei nutrienti in essi contenuti.
Questa domanda, che spesso mi sento rivolgere dai miei pazienti, nasce dalla decisione dello IARC (International Agency for Research on Cancer, Agenzia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si occupa di valutare e classificare le prove di cancerogenicità delle sostanze) di inserire nel 2015
la carne rossa (parte muscolare di manzo, vitello, maiale, agnello, montone, cavallo e capra) nella lista delle sostanze probabilmente cancerogene (classe 2A della classificazione dello IARC) e la carne lavorata (sottoposta a salatura, stagionatura, fermentazione, affumicatura o altri processi come l’aggiunta di conservanti per migliorarne il sapore o la conservazione) come sicuramente cancerogena (classe 1 della classificazione dello IARC), soprattutto rispetto alla comparsa di tumore del colon-retto ma anche di altri tipi di tumore, per esempio, al pancreas, alla mammella, allo stomaco e alla prostata, sebbene per questi ultimi i dati raccolti siano ancora insufficienti.
La pericolosità della carne, in termini di effetto cancerogeno, sembra dipendere soprattutto dai metodi di lavorazione (possono essere aggiunte sostanze pericolose come nitrati e nitriti) e di cottura (le cotture ad alta temperatura, per esempio alla griglia, o le fritture, determinano la formazione di sostanze potenzialmente dannose).
La classificazione di cancerogenicità non è una classificazione del livello di rischio, ma una misura del grado di fiducia che gli esperti hanno nei dati per potersi esprimere sulla cancerogenicità di un prodotto: gli studi su salumi e insaccati hanno una solidità tale da far dire con maggiore confidenza che i salumi possono aumentare il rischio di ammalarsi, mentre gli studi sulle carni rosse non lavorate sono statisticamente meno forti e quindi ci permettono solo di dire che probabilmente, ma non certamente, l’associazione esiste.
Molti giornali hanno titolato, all’epoca dell’uscita di questa classificazione, che la carne lavorata è “cancerogena come il fumo”. Si tratta di una interpretazione fuorviante, che ha creato molta confusione: è inserita nella stessa categoria del tabacco questo è vero – quella delle sostanze che sono sicuramente cancerogene per l’uomo – perché per entrambe le sostanze sono disponibili prove scientifiche sufficienti perché gli esperti possano evidenziare questo nesso. Quindi la classificazione non fa riferimento al potere cancerogeno ma alla forza del legame, alla certezza che il nesso esista.
Un’analisi condotta nel 2011 dal World Cancer Research Fund ha stimato che un consumo elevato di carni rosse lavorate aumenta del 17% il rischio individuale di ammalarsi di cancro del colon. Si tratta però del cosiddetto rischio relativo, che va cioè rapportato al rischio reale (rischio assoluto) del singolo individuo. Per tradurle in indicazioni individuali, è bene valutare insieme a un medico il proprio rischio di ammalarsi che dipende anche da altri fattori, come appunto la familiarità, lo stile di vita e la presenza di altri fattori di rischio.
I cibi di origine animale contengono, oltre alle proteine, anche molte altre sostanze tra cui i grassi saturi e il ferro del gruppo eme. In dosi eccessive essi stimolano l’aumento di colesterolo, i livelli di insulina nel sangue e l’infiammazione del tratto intestinale, aumentando il rischio di certe patologie, tra cui i tumori, in particolare quelli del colon-retto. Un consumo modesto di carni rosse non aumenta in modo sostanziale il rischio di ammalarsi di cancro del colon-retto in individui a basso rischio di partenza, ma è comunque associato a un maggior rischio di sviluppare diabete e malattie cardiovascolari. Le persone a elevato rischio individuale (per familiarità o altre patologie) dovrebbero discutere del loro piano alimentare insieme a un medico, per valutare quanto è opportuno ridurre l’apporto di carne rossa e carni lavorate.
Il Comitato Nazionale per la sicurezza alimentare (CNSA) raccomanda: “di seguire un regime alimentare vario, evitando l’eccessivo consumo di carne rossa, sia fresca che trasformata, di prestare attenzione alle modalità di preparazione e cottura degli alimenti, limitando cotture alla griglia ad alte temperature e fritture, e di seguire un’alimentazione che comporti una riduzione dell’apporto di grassi e proteine animali e favorisca invece l’assunzione di cibi ricchi di vitamine e fibre, che possa prevenire anche le malattie cardiovascolari oltre che quelle tumorali”.
In generale, il consumo di carne rossa o lavorata non deve superare i limiti raccomandati dalle Linee Guida per una sana alimentazione, che sono però, molto inferiori rispetto al consumo medio della popolazione italiana.
Considerando che mai, nella storia dell’umanità, si è consumata così tanta carne e in modo così diffuso, ci sono sicuramente i margini per una ragionevole riduzione, senza arrivare necessariamente a scelte drastiche.
Il trend salutista che l’industria alimentare sta attraversando ha sicuramente coinvolto anche la scelta della pasta, andando a preferire un prodotto integrale a quello raffinato. Per questo anche le grandi aziende hanno ampliato notevolmente la loro offerta di prodotti integrali, pasta inclusa. La differenza sta nella lavorazione della pasta: nella farina bianca tramite un processo meccanico (non chimico come in molti pensano) si ha la frantumazione del chicco che è stato privato della parte esterna (la crusca, ricca in fibra) e del germe (la parte interna, ricca in proteine e minerali) mentre la farina integrale che è chiamata così perché i chicchi usati per produrla sono interi, ossia contengono ancora tutte le loro componenti. A volte la farina integrale viene ottenuta aggiungendo crusca ad una farina raffinata.
La pasta integrale, avendo tutte le componenti del chicco, ha una maggior quantità di fibra e di micronutrienti. Questo la rende sicuramente un alimento più completo, ma nello stesso tempo vanno sfatati alcuni miti: la pasta integrale non è meno calorica, la differenza è pressoché irrilevante e quindi non aiuta a dimagrire. Può essere utile all’interno di una dieta ipocalorica grazie al maggiore potere saziante dato dal maggior contenuto di fibre.
Inoltre, nonostante sia una buona fonte di micronutrienti e fibre, questo può portare erroneamente a credere che possa essere lecito escludere altre fonti di fibre nell’alimentazione. Ovviamente non è possibile raggiungere l’apporto di fibre solo consumando pasta integrale ed è comunque necessario assumere 5 porzioni al giorno tra frutta e verdura.
Occorre inoltre ricordare che la parte esterna del chicco, che viene normalmente asportata durante la raffinazione, è la più esposta alle sostanze chimiche utilizzate in agricoltura (come pesticidi e diserbanti). Per questo motivo è bene accertarsi della provenienza dell’alimento integrale acquistato, onde evitare l’introduzione di sostanze dannose sopra la soglia tollerata dal nostro organismo.
Esistono poi situazioni in cui un consumo eccessivo di fibra insolubile è da sconsigliare: è il caso di patologie infiammatorie intestinali in fase attiva, malnutrizione, sottopeso, carenza di micronutrienti, o anche nello sportivo nelle fasi in cui è importante assorbire tutti i carboidrati per recuperare le scorte di glicogeno.
In linea generale quindi il consiglio sull’assunzione è da moderare in base all’individuo considerando che è un alimento sicuramente più completo per la popolazione generale sana e che può sicuramente essere utile in caso di percorsi di dimagrimento per il maggiore senso di sazietà ma non è un alimento necessariamente “obbligatorio” all’interno di una dieta sana ed equilibrata.
Una fonte di fibre e micronutrienti molto importante e spesso trascurata nell’alimentazione quotidiana è quella dei cereali in chicco integrali (avena, orzo, farro, amaranto, sorgo ecc) che sono una fonte di fibre e micronutrienti dall’alto potere saziante. Anche in questo caso valgono le precisazioni in merito all’assorbimento da parte della parte esterna del chicco delle sostanze usate in agricoltura e della personalizzazione dei livelli di fibra da assumere in caso di quadri clinici specifici.
Gli omega-3 sono degli acidi grassi essenziali: questo significa che non siamo in grado di produrli autonomamente e dobbiamo necessariamente introdurli con l’alimentazione.
In realtà, l’unico omega-3 veramente essenziale è il loro precursore, l’acido alfa-linolenico (ALA) dal quale l’organismo ricava l’acido eicosapentaneoico, noto come EPA, e l’acido docosaesaenoico, noto come DHA. Tuttavia, la capacità dell’organismo di utilizzare il precursore per produrre gli altri omega-3 è piuttosto scarsa o comunque difficilmente quantificabile ed è quindi preferibile assumerne una buona quantità con la dieta.
Gli omega-3 vengono definiti comunemente grassi buoni, per le loro proprietà benefiche, molte delle quali sono state confermate da studi scientifici che evidenziano la loro attività antinfiammatoria. In particolare rivestono un ruolo importante nel mantenimento di livelli normali di colesterolo e trigliceridi nel sangue, contribuiscono al mantenimento delle funzioni neurologiche e al corretto sviluppo degli occhi e del cervello del feto e dei bambini.
Gli omega-3, inoltre, sono i precursori di molecole anti-infiammatorie mentre la classe di acidi grassi omega-6, al contrario, produce molecole pro-infiammatorie. Sia i composti antinfiammatori che quelli pro-infiammatori sono necessari al mantenimento della salute ma è importante che siano in equilibrio fra loro. Un eccesso di omega-6 o una carenza di omega-3 (come accade nella cosiddetta “dieta occidentale”) sposta l’equilibrio a favore di uno stato pro-infiammatorio.
L’acido alfa-linolenico (ALA) è l’omega-3 più abbondante nei prodotti vegetali, in particolare si trova nei semi oleosi, come soia, semi di lino, semi di canapa, noci, mandorle, nocciole ecc. e negli oli derivati da questi semi. Al contrario, l’acido eicosapentaneoico, (EPA), e l’acido docosaesaenoico (DHA) sono presenti soprattutto negli alimenti di origine animale, in particolare nel pesce azzurro (sarde, sgombri, tonno…), salmone e in alcune alghe marine. Ovviamente, gli alimenti più ricchi di EPA e DHA sono costituiti dagli oli animali ricavati dal fegato dei pesci.
Gli omega-3 vanno integrati quando l’apporto sia insufficiente con la dieta o quando vi sia un aumentato fabbisogno (ad esempio in gravidanza), sotto controllo medico. Gli omega-3 sono sensibili alla luce e al calore, vanno protetti dal sole e consumati crudi o dopo breve cottura.